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Anche in italia una legge per donare i prodotti alimentari che altrimenti verrebbero buttati – Come rimediare allo spreco

L’Osservatore Romano - lunedì 22 agosto 2016

di CARLO TRIARICO

Il 2 agosto è stata approvata in via definitiva in Italia una legge che permette al sistema agroalimentare di donare i prodotti alimentari che andrebbero buttati. Segue di poco la normativa più punitiva recentemente varata in Francia e si spera segni l’avvio di una lunga serie di provvedimenti sul tema perché, come già indicato dalla legge italiana in materia di economia sociale, la rinascita economica non potrà prescindere dall’economia solidale.

L’Italia recupera solo il 9 per cento del cibo inutilizzato, afferma il Politecnico di Milano. Dato insufficiente, ma che è aumentato del 10 per cento negli ultimi 4 anni. Andrea Segrè, che da anni si batte per un’inversione di rotta, ci informa che il recupero di tutto il cibo sprecato in Italia sfamerebbe oltre 44 milioni di persone, cioè tre quarti della popolazione del Paese. Aggiunge che quello che si spreca nel mondo sfamerebbe 2 miliardi di persone. La donazione del cibo non va considerata dunque un correttivo esterno al sistema economico, ma un suo importante motore.

L’economia di donazione permette di dare riconoscimento e sostegno ai migliori talenti individuali inespressi e in difficoltà, libera com’è dal dover valutare se il beneficiario ha capacità di scambio. Favorisce così il processo di domanda e offerta proprio dove la domanda è forte, ma inascoltata, come quella degli affamati. Per il sistema agroalimentare in crisi l’economia solidale sarebbe una grande risorsa. Già oggi gruppi di cittadini tengono vive, volontariamente, aziende agricole di qualità indipendentemente dallo scambio di merci, e ricevono in dono non solo il cibo che queste producono, ma anche la sopravvivenza delle stesse aziende a presidio del territorio. Sono piccoli esempi che dovrebbero ispirare un processo solidale programmato per il sostegno del sistema agroalimentare. La nuova normativa italiana sullo spreco è un incoraggiante inizio per rimediare alla manifestazione più eclatante e odiosa dell’ingiusta distribuzione del cibo, ma non basta, poiché interviene per limitare gli eccessi di un sistema che, purtroppo, fonda la sua fortuna sul consumo irresponsabile e sul cibo che nasce già spazzatura. Rispetto a questo occorre affermare il cibo come offerta e non come commodity. Gandhi ricordava che un affamato nel pane vede Dio.
Ci si chiede se occorra magari introdurre sanzioni per chi spreca, come già avviene in Francia. Questa è una domanda che pone una questione di diritto: di alcuni beni si può acquisire la proprietà, ma non la disponibilità assoluta. Concentrare per sé la ricchezza mondiale di cibo e buttare gli eccessi accaparrati ai danni dello sterminato numero di chi ha fame, è un gesto esecrabile. Sarebbe necessario pensare allora ad un intervento punitivo programmato su ampia scala, prima ancora che risolvere la questione punendo il singolo. La dimensione mondiale del problema infatti richiede l’istituzione di nuovi presidi dei diritti umani e civili su scala internazionale e una vasta campagna di educazione. Alle misure giuridiche che iniziano ad essere adottate dovrà accompagnarsi l’impegno per un modello agricolo ecologico, che non si fondi sul consumo, ma sulla cura dell’essere umano, dell’ambiente e dei suoli fertili, con l’obiettivo di abolire la miseria.
Del resto, che lo spreco non sia un incidente, ma un elemento costitutivo del sistema agroalimentare contemporaneo, lo dicono anche i numeri sul cibo che buttiamo. In effetti, ancor più che la crescita demografica, a preoccupare è l’aumento dello spreco dovuto ai grandi disordini politici e all’adozione, anche nei Paesi emergenti, degli stessi stili alimentari del nord del mondo. Un esempio è l’incremento degli allevamenti industriali, che assorbono per il bestiame parte consistente delle risorse mondiali di cibo. Dovremo perciò favorire un regime alimentare più equilibrato.
Questo indicano studi sulle politiche alimentari come quello pubblicato già nel 2013 dal Journal of Rural Studies, secondo cui le stime che impongono di incrementare — entro il 2050 — di oltre il 70 per cento la produzione alimentare mondiale andrebbero fortemente ridimensionate e con esse la credenza che il modello agricolo debba aumentare le rese consumando i beni ambientali e le risorse fossili.I dati a disposizione incoraggiano invece l’adozione di un’agricoltura più sostenibile, biologica e biodinamica, a condizione che si cambi il sistema dei consumi. Prima di dispendiose e improbabili corse iper- produttive, dovremo cambiare dunque cultura alimentare, praticare il riuso, produrre alimenti di alto valore nutrizionale e non cibo spazzatura, aumentare le rese dell’agricoltura ecologica, preservare i suoli dalla distruzione, salvare le popolazioni contadine per portarle all’eccellenza dell’organizzazione economica e sociale.

di Carlo Triarico

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