L’Osservatore Romano, lunedì 16 maggio 2022, pag. 9
Salvatore Veca, maestro e amico, cui devo un apprendistato che non giudico certo concluso con la sua morte fisica, è stato il grande interprete a tutti noto della riflessione politica e civile dei nostri tempi, ponendosi al crocevia di diverse tradizioni culturali, anche con quella sua illuminata direzione scientifica della Feltrinelli. Meno celebrato e non meno significativo è stato il suo contributo degli ultimi anni fra i contadini nella riflessione per un nuovo modello agricolo e il diritto al cibo, nell’ottica di una ecologia integrale.
Come è noto, nella stagione di Expo 2015 Salvatore Veca, con la Fondazione Feltrinelli, assunse la responsabilità scientifica di Carta di Milano, il lavoro collettivo destinato a diventare documento dell’Onu sul futuro agroalimentare e l’obbiettivo fame zero. “Questo è il nostro assioma: siamo convinte e convinti che il diritto al cibo sia un diritto umano fondamentale e riteniamo che un mondo senza fame sia un mondo possibile. Ogni violazione di tale diritto fondamentale è una violazione della eguale dignità umana. Di chiunque, ovunque”. Veca riassumeva così la volontà delle centinaia di esperti che si radunavano da tutto il mondo, sotto la sua direzione scientifica, nel Laboratorio di Expo per Nutrire il Pianeta. In un momento di incertezza per le sorti dell’esposizione universale, su cui gravavano non solo i ritardi del Paese, ma anche alcune iniziali opposizioni di parte del mondo agricolo e ambientalista, Salvatore Veca seppe intervenire con impulso innovatore.
Gli agricoltori colsero l’importanza di quell’impegno e non soli. Con la collaborazione della Fondazione Feltrinelli e dell’Università Bocconi, attraverso l’Associazione per lAgricoltura Biodinamica, organizzammo, nel 2014 il primo grande convegno su Expo a Milano, cui parteciparono i più importanti testimoni europei del paradigma agroecologico. Durante il convegno fu presa da Federbio, insieme a Bologna Fiere, con Aiab e l’Associazione Biodinamica, la decisione di creare in Expo il Padiglione Biodiversità. Fu un luogo tra i più vivaci della proposta culturale di Expo 2015, come ebbe a riconoscere lo stesso Giuseppe Sala. In quel padiglione presero vita, tra l’altro, le proposte per il piano del Ministero delle Politiche Agricole per lo sviluppo del bio italiano, che costituirono il punto di riferimento delle future azioni di sistema dell’Italia per il settore e che contribuirono a fare del Paese il leader europeo delle produzioni bio. La direzione intrapresa allora fu anticipatrice del Green deal europeo che fissa oggi al 25% la superficie coltivata in bio utile a garantire il futuro alimentare e l’accesso al cibo.
Salvatore Veca, con Inge e Carlo Feltrinelli, Massimiliano Tarantino e Giulia Maria Crespi, furono decisivi nell’assistere quel processo, azione meritoria soprattutto considerando che nei piani iniziali non era prevista in Expo la presenza del biologico e biodinamico italiani.
Veca era stato mio maestro nel suo periodo fiorentino, quando la teoresi non marxista intorno alle questioni di giustizia sociale che aveva introdotto in Italia, incontrava l’urgenza pragmatica di una riforma della politica italiana. Le lezioni di allora, insieme alle diverse stagioni della sua riflessione filosofica che tutte insieme costituiscono l’identità culturale di Veca, sono state ispirazione per molti di noi. Mentre attendevamo ai lavori per Expo gli feci notare l’insostenibile rimozione della bioagricoltura dall’agenda dell’esposizione universale. Volle allora che preparassi il “Documento 99” di Carta di Milano che decidemmo di chiamare Per un nuovo modello agricolo. Lo divertì il riecheggiare, nel titolo, di quel Progetto Ottantanove (Il Saggiatore, 1989), scritto con Alberto Martinelli e Michele Salvat nel quale compariva il suo saggio Libertà e eguaglianza. Una prospettiva filosofica. Nel “Documento 99” furono poste alcune questioni di giustizia e di contrattualismo in favore di un nuovo paradigma rurale. Oltre alla questione ecologica come questione di giustizia, vi compare una riflessione sui sistemi nella distribuzione e gestione dei beni agricoli. Questi ultimi non possono essere considerati e tassati (è la tesi del contributo) come fossero mezzi tecnici di produzione, appartenendo piuttosto a quei commons che costituiscono entità spirituali custodite a tutela dell’interesse di tutti e di ciascun essere umano.
“Tutto il mondo è intimamente connesso”, con la riflessione sistemica della Laudato si, il 10 ottobre 2015 Veca aprì i lavori per assicurare un futuro all’esperienza di Expo, consapevole che se non si porrà il tema dell’esperienza e delle relazioni (quindi del soggetto che lo strutturalismo ha espulso nella sua concezione dei sistemi), sfuggirebbe la centralità dell’essere umano nei luoghi della vita rurale. Prevarrebbe allora un’agricoltura disumanizzata. Il modello rurale contemporaneo esprime una tecnologia agraria intrinsecamente connessa al paradigma scientifico corrente, nelle sue grandezze e limiti. Eppure mai come in questi anni osserviamo in agricoltura il divorzio tra tecne, saper fare, ed episteme, sapere cosa fare. Una dicotomia che le meditazioni su incertezza e possibilità e le lezioni su incompletezza e immaginazione di Salvatore Veca potranno contribuire a porre come problema centrale per avanzare provvisorie proposte di risoluzione.
Al termine di Expo e contando sulla disponibilità del Corriere, raccogliemmo firme autorevoli del mondo agricolo, messe ineditamente insieme, su un appello per la partecipazione attiva del mondo agroecologico al progetto del polo del post Expo, che vedeva in Veca e nella Fondazione Feltrinelli i naturali continuatori di un lavoro di sistema, proiettato oltre l’esposizione universale. Il fermento di tanti volse però presto a esaurimento, quando le sorti del post Expo cambiarono improvvisamente direzione e assunsero un’altra conduzione, gravata poi da contese accademiche. Veca lo racconta, non senza amara ironia, in una delle poche pagine di giornalismo di quel Prove di autoritratto (Mimesi, 2020) che nella sua ultima lettera del nostro scambio epistolare definisce “una sorta di autobiografia che è incentrata sulla mia ricerca personale, filosofica e civile, ma in fondo è anche un resoconto grato per le persone che mi hanno insegnato cose importanti nella vita”. Veca non smise il suo impegno con gli agricoltori per il diritto al cibo. Insegnava filosofia nei corsi contadini che l’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica organizza nella tenuta Cascine Orsine dei Crespi a Pavia, tra i campi non lontani (nemmeno idealmente) dalla sede universitaria dei suoi insegnamenti più noti. Di questi scambi mi scrisse “mi fa un grande piacere e mi dà le motivazioni per ‘non mollare’, anche in tempi difficili”.
Bisognerà riflettere sulle idee di una qualità nuova e cariche di prospettive future contenute in quelle lezioni. Si tratta di un impegno poco noto, che merita l’apertura di un dibattito sul ruolo delle nuove classi subalterne nel loro divenire motore di trasformazione epocale tanto nella campagna, tanto nella città nuova. È un impegno per gli ultimi che riprende quanto fu dei grandi teorici del movimento operaio nelle sue diverse scuole e che ha saputo vedere acutamente negli agricoltori, oggi i più oppressi ed emarginati dai processi sociali in genere ed economici in particolare, il popolo capace di raccogliere e portare a realizzazione quei programmi ideali di giustizia che un filosofo come Veca ha assunto il compito di tratteggiare.
Pubblicato su L’Osservatore Romano nell’edizione del 16 maggio 2022 https://www.osservatoreromano.va/it/news/2022-05/quo-111/la-visione-di-veca-per-gli-agricoltori.html
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